PACOMIO, abate di Tabennesi santo. Nato nella diocesi di Snē (Latopolis dei Greci) nel 287, P. mori a Phbōou nel 347, dopo aver istituito nell'Alto Egitto una Congregazione di nove fiorenti monasteri. Fu profondamente venerato dai suoi discepoli che lo considerarono come padre del cenobitismo egiziano.
Sommario: I. Fonti. - II. Vita. - III. Spiritualità. - IV. Culto. - V. Iconografia.
I. FONTI. Tra i diversi testi della documentazione pacomiana, la Vita costituisce certamente il documento piú importante e piú prezioso per la conoscenza del personaggio e della prima generazione del monachismo da lui istaurato.
Piú d'una volta P. raccontò ai suoi primi discepoli la storia della propria infanzia, della conversione, delle lotte contro i demoni e degli inizi della Congregazione e, dopo la morte del « padre », Teodoro, il discepolo prediletto, narrò ancora ai fratelli queste stesse cose e tutto ciò che P. aveva fatto per lo stabilimento della Congregazione; esortati ripetutamente da Teodoro, i fratelli «interpreti» scrissero la prima Vita di P. Non si sa con certezza se fu scritta in copto o in greco, poiché i fratelli « interpreti », dunque bilingui, poterono scriverla nell'una e nell'altra lingua. Tuttavia un fatto è certo: tutte le grandi compilazioni che ci restano della Vita di P. si fondano su documenti copri e non esiste alcuna valida ragione per supporre che questi abbiano avuto dei modelli greci.
Da lungo tempo due particolari compilazioni sono state riconosciute essere le piú importanti: la prima Vita greca e la compilazione copra del tipo della Vita bohairica, mentre si è molto discusso sulle relazioni esistenti tra i due documenti e sulla priorità dell'uno rispetto all'altro. Un attento confronto con un testo arabo ancora inedito ci ha dimostrato che non si tratta in realtà di un vero e proprio problema. Le due compilazioni si fondano sugli stessi due documenti base: una Vita breve di P. ed un altro documento da noi considerato come una Vita di Teodoro; un primo compilatore maldestro inserí in blocco la prima parte della Vita di Teodoro in quella di P. ed il risultante testo sahidico ci è pervenuto soltanto in una traduzione araba inedita (ms. 116 della Biblioteca Universitaria di Gottínga). La Vita breve di P. non è stata conservata distinta mentre quella di Teodora si conserva in ampi frammenti sahidici. Un rimaneggiamento di questa compilazione, dunque, fu la fonte comune che l'autore della prima Vita greca e quello della Vita copta del tipo della Vita bohairica rimaneggiarono leggermente e completarono indipendentemente l'uno dall'altro.
A parte qualche frammento molto antico (S1 - S2 - S8) la Vita araba del ms. di Gottinga (inedita, ma incorporata nella grande compilazione araba pubblicata da Amélineau) rimane il documento piú importante per la conoscenza della vita di P., mentre tutti gli altri, sia greci sia copri, o ne dipendono o hanno un interesse secondario.
Accanto alla fonte fondamentale costituita dalla Vita, è il caso di citare la Regola di P., le sue catechesi e le sue lettere, oltre che alcune opere dei suoi discepoli e successori immediati, Teodoro e Orsiesio.
In realtà s. P. non scrisse una regola o per lo meno non nel senso in cui si intende la parola quando si parla ad es, della Regula Magistri o di quella di s. Benedetto, né ha scritto regole sul tipo di quelle « morali » di s. Basilio. La Vita, tuttavia ci parla a piú riprese dei precetti o regolamenti che egli andava tracciando per i suoi discepoli, precetti e regolamenti che, redatti in occasione della fondazione di nuovi monasteri, riguardavano soprattutto l'organizzazione materiale del lavoro durante la sinassi, la cura dei malati, il lavoro dei campi e dei forni, ecc.; alcuni di tali precetti, scritti in circostanze diverse, furono riuniti ad altri di data posteriore opera probabilmente di Orsiesio. Questo insieme eterogeneo fu tradotto dal greco in latino da s. Girolamo con il titolo Regola di s. Pacomio ed è inutile dire che questo amalgama, per quanto prezioso possa essere per lo storico, non è di natura tale da darci una idea esatta della spiritualità pacomiana, né della vita pacomiana della prima generazione. Dopo la Vita, quindi, i documenti piú importanti a tale scopo sono invece le poche catechesi di Teodoro conservate in copto ed il testamento di Orsiesio (Liber Orsiesii) conservato in latino.
L'Historia Lausiaca di Palladio, che comprende alcuni capitoli (32-34) dedicati ai Tabennesioti, ha avuto una straordinaria popolarità attraverso tutto lo svolgersi della tradizione sino ai nostri giorni ed ha contribuito non poco a creare e conservare una falsa immagine del cenobitismo pacomiano, In effetti, questo strano testo e soprattutto la fantasiosa regola del cap. 32 (che si dice dettata da un angelo) non hanno praticamente niente in comune con questa forma di cenobitismo. Palladio ha semplicemente utilizzato in questi capitoli un testo preesistente, d'origine copra, nel quale un monaco in possesso di una vaga conoscenza dell'ambiente pacomiano aveva tentato di descriverlo nel quadro delle pratiche dei centri semianacoretici del Basso Egitto.
II. VITA. P. nacque, come si è detto, a Snē, regione dell'Alto Egitto, nel 287, da genitori pagani. Verso i vent'anni fu arruolato di forza nelle armate imperiali e, giunto a Tebe, fu gettato in prigione con le altre reclute; a sera però i cittadini del luogo vennero a portate loro dei viveri. Commosso da tanta bontà, P. chiese chi fossero ed essi risposero di essere cristiani e di trattare cosí i prigionieri « per il Dio del cielo »: questo fu il primo contatto di P. con il Cristianesimo. Durante la notte, pregò il Dio di quei cristiani di liberarlo dalla servitú promettendogli di servire il genere umano per tutti i giorni della propria vita.
La sua preghiera fu esaudita e poco dopo fu congedato. Messosi in cammino verso Sud, si fermò presso la comunità cristiana del villaggio di Šenesēt (Khenoboskion per i Greci, l'attuale Kasr-es-Sayad), dove fu catechizzato e ricevette il Battesimo. Durante la notte nella quale fu iniziato ai santi misteri una visione gli fece comprendere che egli doveva espandere la grazia allora ricevuta su tutto il genere umano che si era impegnato a servire: vide in sogno la rugiada del cielo discendere sul suo capo, quindi scorrere sulla sua mano destra dove si condensava in miele prima di spandersi su tutta la superficie della terra. Ma quale servizio P. doverla rendere agli uomini suoi fratelli, Dio glielo avrebbe rivelato gradualmente.
Per qualche tempo egli visse da asceta in seno alla comunità cristiana di Šenesēt, dedicandosi al servizio della gente del luogo, soprattutto nel corso di un'epidemia scoppiata in quel periodo. Ben presto, però, decise di farsi monaco e andò a mettersi sotto la protezione del vecchio Palamone (v.) che viveva nei dintorni, e presso questo padre spirituale trascorse sette anni. Ma un giorno, in cui si era ritirato per pregare nel deserto di Tabennesi, gli giunse dal cielo una voce che gli disse: « Pacomio, Pacomio, lotta, installati qui e costruisci una dimora poiché una folla d'uomini verrà a te e seguendoti si faranno monaci con profitto delle loro anime ». Il cielo gli aveva quindi precisato la sua vocazione ed in tal modo egli servirà il genere umano. Dopo poca tempo lo raggiunse il fratello Giovanni e molti contadini copti vennero a stabilirsi presso di lui, poiché egli « era buono per loro ».
Pazientemente e non senza insuccessi, all'inizio, egli li educò alla vita comune e gradualmente fece del piccolo gruppo una Koinonia, una vera comunità cristiana, ad immagine di quella dei primi cristiani di Gerusalemme, insistendo sulla comunione nella preghiera, nel lavoro e nei pasti.
Dopo un inizio difficile, cominciarono ad affluire i novizi e la Congregazione si sviluppò con tale rapidità che P. dovette organizzare, uno dopo l'altro, otto monasteri. Lasciando a Teodoro, il discepolo prediletto, l'amministrazione di Tabennesi, egli andò a stabilirsi a Phbōou, la sua seconda fondazione, dove fissò la sede del governo generale di tutta la Congregazione; poco dopo però fece venire in quel luogo lo stesso Teodoro, per esserne aiutato in questa amministrazione.
P. e i pacomiani avevano una grande stima ed un profondo rispetto per i loro vescovi ed in particolare per Atanasio, patriarca di Alessandria, che non sdegnava di andarli a visitare nella Tebaide. I vescovi locali ebbero in generale un atteggiamento assai amichevole verso P. e fu proprio per le insistenze di alcuni di loro che egli fondò alcuni dei suoi monasteri. In certi casi si verificò qualche tensione, ma sempre si trattò di eccezioni: poco prima di morire, ad esempio, P. fu convocato davanti ad un sinodo di vescovi a Latopolis per fornire spiegazioni sulle sue visioni e sul dono della diacrisis. Tranne questo caso isolato, del resto narrato piuttosto oscuramente nella Vita, le relazioni tra i vescovi e P, rimasero, generalmente, eccellenti.
Alla sua morte, nel 347 P. lasciava oltre ai nove monasteri maschili anche un monastero femminile. Pur non potendosi prendere seriamente la cifra fantastica di numerose migliaia di monaci, fornita dalla Historia Lausiaca, resta certo che la Congregazione pacomiana, alla morte del fondatore, era tra le piú fiorenti.
Il successore immediato di P., da lui stesso designato, cioè Petronío, visse solo qualche giorno dopo la morte del santo e fu sostituito da Orsiesio, il quale non riuscí a conservare l'unità della Congregazione e dovette rimetterne il governo nelle mani di Teodoro fino alla morte di quest'ultimo (367).
III. SPIRITUALITÀ. Quando P. si fece monaco, esistevano nell'Alto Egitto numerose comunità semi-anacoretiche ed anzi egli stesso fu membro di una di esse; e tuttavia per i suoi discepoli e i suoi successori, oltre che per i suoi biografi, egli fu il fondatore della vita cenobitica. La forma di vita monastica da lui instaurata era dunque, almeno in Egitto, qualche cosa di nuovo. Non é tuttavia il caso di insistere troppo sull'originalità del cenobitismo pacomiano rispetto ai raggruppamenti di asceti riuniti intorno ad uno stesso padre spirituale.
Ciò che tuttavia costituisce la vera originalità della comunità pacomiana è proprio il fatto che essa non é più semplicemente il raggrupparsi di eremiti intorno ad un padre carismatico, ma una comunità di fratelli in comunione fra loro nella preghiera, nel lavoro e in tanti altri momenti della loro vita. Come nel cenobitismo primitivo di Siria e in quello di Cappadocia la realtà fondamentale di questa spiritualità é proprio quella della comunione che dà al cenobitismo ragion d'essere e piena giustificazione anche senza un orientamento verso l'eremitismo. Rimane ad ogni modo come modello la vita della primitiva comunità cristiana a Gerusalemme, sotto la guida degli Apostoli: non si tratta di una semplice unione di cuori, ma di una comunione effettiva e concreta che si manifesta nel „ servizio “ reciproco sotto tutte le forme.
L'autorità del superiore, quale concepita da P., non può essere compresa senza fare appello a questa nozione profondamente cristiana del “servizio”. P, si considera l'umile servitore di tutti i suoi fratelli e protesterà vigorosamente ogni qualvolta gli si vorrà accordare un trattamento speciale in quanto superiore. Tutta l'organizzazione delle case e dei superiori subalterni (capi di casa, secondi, ecc.) ha ugualmente come ragion d'essere il servizio dei fratelli: vi é la casa destinata all'assistenza dei malati, quella per gli ospiti, ecc. Di conseguenza l'obbedienza non ha soltanto un fine ascetico o educativo, ma ha sempre un orientamento comunitario e se si è tanto parlato del preteso carattere « militare » dei monasteri pacomiani è soltanto perché, invece di consultare le autentiche fonti del cenobitismo pacomiano, ci si è ciecamente fidati della fantasiosa « Regola dell'angelo » della cronaca palladiana.
La somiglianza tra questa spiritualità monastica e quelle di Siria e Cappadocia - malgrado le innegabili differenze -- dipende senza dubbio dal fatto che esse hanno le piú profonde radici nella stessa corrente dottrinale giudeo-cristiana. Come quella dei « figli del patto » la loro ascesi si fonda sul Battesimo e le sue esigenze e, del resto, molti discepoli di P. venivano dal paganesimo o almeno non erano ancora stati battezzati al momento del loro ingresso nel monastero. Qui essi trascorrevano un periodo come catecumeni e ogni anno, quando tutti i fratelli dei nove monasteri della Congregazione si riunivano a Phbōou per celebrare insieme la Pasqua nella preghiera e la parola di Dio, aveva luogo il Battesimo solenne di tutti i catecumeni della Congregazione, i quali si trovavano cosí introdotti contemporaneamente nella Chiesa e nella vita monastica.
In considerazione di ciò si comprende facilmente tutta l'importanza del Battesimo nella spiritualità pacomiana. Quando P. o Teodoro parlano nelle loro catechesi delle promesse fatte a Dio, alle quali esortano a rimanere fedeli, si riferiscono alle promesse del Battesimo e non ad una particolare professione religiosa. Tutta la vita monastica è concepita come pieno adempimento di tali promesse, vale a dire piena fedeltà a tutti i comandamenti di Dio in vista del possesso di tutti i frutti dello Spirito Santo.
Il documento fondamentale di questa vita monastica non è una regola umana o angelica; è la S. Scrittura, cioè la regola prima e, in certo senso, la sola regola del monaco di Tabennesi. Sin dalla sua iniziazione al monachismo egli ne impara a memoria lunghi brani che medita, vale a dire recita a memoria, a voce bassa, nel corso dell'intera giornata e spesso della notte, camminando, lavorando o facendo qualunque altra cosa. È questa la principale forma di preghiera: contatto con Dio attraverso il sacramento della sua parola. E quando al mattino e alla sera si ritrova alla sinassi con i suoi fratelli, comunica con loro con la stessa preghiera, nello stesso « ruminare » la parola di Dio.
Questa spiritualità cosí ricca e questa forma di vita cenobitica cosí pura non ebbero in Oriente e in Occidente la diffusione e l'influenza che il loro valore intrinseco avrebbe meritato. Il monachismo pacomiano rimase isolato innanzi tutto geograficamente, ma anche psicologicamente e spiritualmente. Nella letteratura monastica del Basso Egitto, pur cosí aperta a tutte le correnti spirituali, ed in particolare negli Apophthegmi, praticamente nulla si è inserito della letteratura pacomiana e ciò, probabilmente, è dovuto al fatto che piuttosto presto si manifestò un certo antagonismo tra i cenobiti dell'Alto Egitto e gli anacoreti del Basso Egitto. Inoltre, ed in modo piú particolare, l'isolamento pacomiano nacque dal fatto che al momento della grande crisi origenista della fine del IV set. i monaci di Tabennesi presero risolutamente posizione in favore dell'arcivescovo di Alessandria e quindi contro gli asceti di Scete.
In Occidente la Vita di P., tradotta in greco e in latino da Dionigi il Piccolo all'inizio del VI sec., non ebbe una larga diffusione; assai piú successo ebbe la regola tradotta da s. Girolamo della cui influenza si trovano tracce in tutte le grandi regole occidentali. Si deve tuttavia riconoscere che questo insieme di precetti di ordine estremamente pratico e funzionale era poco adatto a propagandare la vera spiritualità pacomiana.
È da augurarsi che i recenti sviluppi degli studi pacomiani permettano a questa autentica spiritualità cristiana di esercitare un'influenza più profonda sul rinnovamento monastico contemporaneo.
IV. CULTO. Sul letto di morte P. fece promettere al discepolo Teodoro di non lasciare il suo corpo nel luogo in cui sarebbe stato sepolto, ma di nasconderlo; egli temeva infatti che sul luogo della sua sepoltura si costruisse un martyrion come era d'uso per i martiri. Egli pensava « che i santi non sono soddisfatti di coloro che agiscono in questo modo ». Teodoro promise e rimase fedele alla promessa: la notte successiva alla sepoltura egli si recò con tre fratelli a prelevare il cadavere e lo collocò in un luogo segreto che sembra non sia stato mai scoperto.
P. era morto il 14 del mese di pašons (= 9 magg.) ed è a questa data che si fa menzione di lui nei sinassari copti ed etiopici. I martirologi occidentali, non conoscendo il calendario copto confusero il 14 pašons con il 14 magg. ed è infatti a quest'ultima data che P. é celebrato nei martirologi di Usuardo e di Baronio, L'errore è stato tuttavia corretto nell'ed. del 1922 del Martirologio Romano in cui la memoria di P. è riportata al 9 magg. I sinassari bízantini lo celebrano in generale al 7 magg. (Sinassario Costantinopolitano), ma anche al 6, al 14 e al 15 dello stesso mese.
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Armand Veilleux